giovedì 3 marzo 2016

Colorado

La nave fotografata tra il 1911 ed il 1917, sotto l’originario nome di William F. Herrin (da www.history.navy.mil

Piroscafo cisterna da 5039 tsl e 3083 tsn, lungo 121,9 metri, larga 15,9 e pescante 9. Appartenente alla Società Anonima di Navigazione Petroleum, con sede a Genova, ed iscritto con matricola 1550 al Compartimento Marittimo di Genova.

Breve e parziale cronologia.

4 febbraio 1911
Varata come William F. Herrin (numero di costruzione 141) nei cantieri Newport News Shipbuilding and Drydock Company di Newport News.
20 marzo 1911
Completata per la Associated Oil Company di San Francisco. Impiegata nel trasporto di petrolio tra gli Stati Uniti e le Hawaii (Honolulu).
23 settembre 1923
In mattinata, mentre la William F. Herrin si trova ormeggiata presso la raffineria Avon, vicino a Martinez (California), si verifica a bordo un’esplosione accidentale in sala caldaie, che provoca un violento incendio e quattro feriti (ricoverati nell’ospedale di Martinez, tutti con bruciature di modesta entità). L’incendio si espande rapidamente, tanto da minacciare di estendersi al carico di 45.000 barili di carburanti presente nelle cisterne; temendo imminente una nuova esplosione, e ritenendo la nave come spacciata, la petroliera in fiamme viene disormeggiata e portata in mezzo alla baia, dove viene lasciata alla deriva, in modo che l’incendio non coinvolga anche le strutture portuali (ma la mossa è controproducente: le correnti interne alla baia sospingono la Herrin verso una parte della baia che pullula di navi, e si riesce a fermarla solo a 270 metri dalla riva). Proseguono però i tentativi di domare le fiamme: il comandante, capitano P. M. Gadeberg, e 30 altri membri dell’equipaggio rimangono a bordo e pompano acqua nelle stive, per isolare il carico di carburante ed evitare che sia raggiunto dal fuoco. Gli sforzi dell’equipaggio permettono di tenere a bada le fiamme fino all’arrivo di un battello antincendio, ma soltanto a notte fatta sarà finalmente possibile estinguere l’incendio.
1928
Acquistata dalla Società Anonima di Navigazione «Perseveranza» di Genova (in gestione a Giuseppe Chiarella), cambia nome in Colorado.
1938
Acquistata dalla Società Anonima di Navigazione Petroleum di Genova (ma sempre in gestione a Giuseppe Chiarella).

Porto Rico

Il 7 giugno 1940 la Colorado, in zavorra ed al comando del capitano Ettore Giugni, entrò nel porto di San Juan, nel possedimento statunitense del Porto Rico, per rifornirsi di 150 tonnellate di nafta per le caldaie (destinazione finale del suo viaggio era Aruba, centro petrolifero del Venezuela). Durante la sosta nel porto (e prima di potersi effettivamente rifornire), tuttavia, la nave fu posta sotto sequestro dal locale ufficiale di polizia giudiziaria (United States Marshal) su ordine della Corte Distrettuale degli Stati Uniti per il Porto Rico, per via di una causa in corso tra gli armatori della Colorado e la Asiatic Petroleum Company; agenti operativi degli U. S. Marshal ebbero l’incarico di sorvegliare la nave giorno e notte.
L’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, appena tre giorni dopo (10 giugno 1940), sancì definitivamente la questione: appartenendo ad una nazione belligerante, la Colorado spense i fuochi delle proprie caldaie l’11 o il 12 giugno, e venne internata a San Juan.
Il 4 novembre 1940, su ordine della Corte Distrettuale, la Colorado venne trasferita dall’ancoraggio dove stazionava fin da giugno ad un altro ormeggio nel canale di San Antonio, dove venne saldamente ormeggiata alla riva.
L’equipaggio al completo rimase a bordo, ed in quelle condizioni visse per i nove mesi successivi.

Il 30 marzo 1941, però, le autorità degli Stati Uniti d’America, pur essendo tale nazione ancora neutrale (il pretesto per questo ordine fu la “necessità” di impedire che le navi venissero sabotate dai loro equipaggi, bloccando i porti statunitensi), procedettero all’arbitraria cattura di tutte le navi italiane, tedesche e di Paesi alleati od assoggettati all’Asse, oltre che alla confisca di tutti i patrimoni tedeschi negli Stati Uniti. Si trattò del primo uso della forza militare da parte degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale: in tutto vennero confiscati 28 mercantili italiani, due tedeschi e 35 danesi, per un totale di 296.615 tsl; ad essi si sarebbero aggiunti, in pochi giorni, molti altri mercantili confiscati da diversi Stati dell’America centrale e meridionale, in imitazione della mossa statunitense. Le autorità degli Stati Uniti giustificarono tale provvedimento – ben poco ortodosso per una nazione neutrale – sostenendo che gli equipaggi italiani e tedeschi avessero iniziato a sabotare le loro navi, e che l’intervento militare statunitense fosse stato necessario per fermarli, in base a quanto stabilito dall’Espionage Act del 1917.
La Colorado condivise la sorte di queste navi: il 30 marzo 1941 venne «presa in custodia» armi alla mano, a San Juan di Porto Rico, da uomini della Guardia Costiera statunitense.
Come per la maggior parte delle navi confiscate quel giorno dagli Stati Uniti (delle 28 navi italiane, soltanto due non furono sabotate), la Colorado non fu catturata intatta: benché fosse ormeggiata nel canale di San Antonio, letteralmente di fronte al quartier generale del locale Distretto Navale della Marina statunitense, il suo equipaggio riuscì a sabotarne le macchine e le caldaie, mettendole fuori uso. Pasta a smeriglio e polvere di smeriglio vennero gettati nei cuscinetti a sfere; i macchinari furono martellati con mazze e scalpelli. I danni inflitti furono tali non solo da impedire alla nave di muovere con le proprie macchine, ma anche da impedire alle pompe di espellere l’acqua, nel caso si fosse aperta una falla, e da impedire di utilizzare le manichette antincendio, in caso d’incendio. Tuttavia non si pensò, o non si riuscì, né a provocare un allagamento, né ad appiccare un incendio.
La presenza a bordo di un ufficiale di polizia giudiziaria (a bordo per vigilare sulla nave sin da quando era stata posta sotto sequestro nel 1940) non aveva costituito un impedimento all’opera di sabotaggio: mentre tale “lavoro” era in corso, infatti, altri membri dell’equipaggio che non vi partecipavano direttamente avevano provveduto ad eseguire lavori rumorosi (ad esempio, raschiando la vernice) in coperta, per coprire il rumore prodotto dal martellamento in sala macchine; od avevano condotto l’ufficiale, con qualche pretesto, in zone della nave lontane da quelle dell’apparato motore, in modo che non si accorgesse di quanto vi accadeva.
La versione che diede la Guardia Costiera fu che dei suoi ufficiali e marinai si fossero recati a bordo della nave per «ispezionare gli ormeggi e le sue condizioni generali», e nel farlo avessero scoperto che il motore principale, i suoi apparati ausiliari, le caldaie ed i loro apparati ausiliari erano stati deliberatamente ed estesamente danneggiati. L’intero equipaggio venne tratto in arresto.
 

I danni arrecati dall’equipaggio della Colorado al suo apparato motore prima della cattura (foto LIFE).
Il 6 aprile 1941 il comandante Giugni ed il resto dell’equipaggio vennero incriminati dalle autorità statunitensi con l’accusa di sabotaggio. Il 12 giugno, Giugni e 25 uomini del suo equipaggio furono giudicati colpevoli di cospirazione e sabotaggio, e condannati a pene detentive di durata variabile dai 3 ai 5 anni, da scontarsi in un penitenziario.
Nell’agosto 1941, gli uomini della Colorado furono inviati in un campo di prigionia del Montana (con ogni probabilità quello di Fort Missoula, destinazione di gran parte dei marittimi italiani catturati nel marzo 1941), dove avrebbero scontato la pena.
Il comandante Giugni ed il resto dell’equipaggio, tuttavia, ricorsero in appello, per mezzo degli avvocati Homer L. Loomis di New York e James R. Beverley di San Juan. Il processo («Giugni et al. V. United States») fu celebrato nel maggio 1942 dinanzi ai giudici Magruder, Mahoney e Woodbury.
Durante il processo fu rilevato che il comandante Giugni aveva agito in base alle istruzioni dategli dall’Addetto Navale dell’Ambasciata Italiana a Washington (era l’ammiraglio Alberto Lais, che per questo venne espulso dagli Stati Uniti) ed aveva ordinato ai suoi subordinati di danneggiare l’apparato propulsivo della nave; questi ordini erano stati portati a compimento, sotto la sua supervisione, alla fine del marzo 1941. Uno dei punti focali della disputa era lo scopo del sabotaggio: per le autorità statunitensi, era stato effettuato “per mettere a repentaglio la sicurezza della nave”, così qualificandolo come reato criminale (con pena pecuniaria fino ad un massimo di 10.000 dollari e pena detentiva fino ad un massimo di venti anni di carcere, in base alla legislazione statunitense); secondo l’equipaggio italiano, com’era ovvio, per immobilizzare la nave al fine di impedire il suo utilizzo da parte di una nazione nemica. Giungi ed i suoi uomini inoltre affermavano che l’articolo della legge statunitense riguardante ai sabotaggi, il 502 dello United States Code («Whoever shall set fire to any vessel of foreign registry, or any vessel of American registry entitled to engage in commerce with foreign nations, or to the cargo of the same, or shall tamper with the motive power or instrumentalities of navigation of such vessel, while within the jurisdiction of the United States, or, if such vessel is of American registry, while she is on the high sea, with intent to injure or endanger the safety of the vessel or of her cargo, or of persons on board, shall be fined not more than $10,000, or imprisoned not more than twenty years, or both»), si applicava solo agli estranei, non già agli armatori ed ai membri degli equipaggi nell’esercizio delle loro funzioni; che interessava le navi non statunitensi soltanto se impegnate nel commercio, e non se in disarmo in un porto; e che in ogni caso si applicava soltanto se perpetrato con deliberato intento criminoso o di porre a repentaglio la sicurezza della nave, il che non era certo il loro caso. Ancora, gli “imputati” aggiunsero che il trattamento loro riservato nel primo processo violava il Quinto Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti («No person shall be held to answer for a capital, or otherwise infamous crime, unless on a presentment or indictment of a grand jury, except in cases arising in the land or naval forces, or in the militia, when in actual service in time of war or public danger; nor shall any person be subject for the same offense to be twice put in jeopardy of life or limb; nor shall be compelled in any criminal case to be a witness against himself, nor be deprived of life, liberty, or property, without due process of law; nor shall private property be taken for public use, without just compensation») e che erano stati giudicati sulla base di prove insufficienti.
I giudici statunitensi rigettarono però tutti i punti avanzati dai legali dei marittimi italiani, ricordando che l’articolo 502 faceva parte del cosiddetto Espionage Act del 1917, approvato in piena prima guerra mondiale (15 giugno 1917), e che era stato pensato proprio per evitare il ripetersi di sabotaggi come quelli attuati all’epoca dagli equipaggi delle navi tedesche che si trovavano negli Stati Uniti, che avevano avuto l’effetto di “impedire e ritardare seriamente lo sforzo bellico” statunitense. Di conseguenza, quella legge era stata emanata proprio per proteggere l’interesse pubblico statunitense nelle navi straniere, quali strumenti utilizzabili nei commerci internazionali; in altri articoli della stessa legge si era precisato che le relative restrizioni riguardavano anche gli armatori, comandanti ed equipaggi delle navi stesse. I giudici statunitensi affermarono di non poter concedere l’immunità al comandante Giugni per aver agito eseguendo ordini dell’Addetto Navale a Washington (in quanto ciò avrebbe violato la regola che impediva a conferire effetti extra-territoriali agli atti di un governo straniero), né al resto dell’equipaggio per aver eseguito agli ordini dati dall’armatore per tramite del comandante (dato che per legge un dipendente che compisse atti criminali per ordine del proprio datore di lavoro non era esentato dalla punizione).
Il comandante Giugni, per tentare di coprire i suoi uomini, testimoniò che era l’unico uomo armato a bordo, che il fatto era noto a tutto l’equipaggio, che aveva con sé la rivoltella bene in vista quando aveva ordinato di distruggere l’apparato motore, e che avrebbe sparato a chiunque si fosse rifiutato di obbedire; i giudici statunitensi tuttavia asserirono che ciò non bastava a dimostrare la coercizione, perché non vi era prova di riluttanza, da parte di chiunque tra l’equipaggio, ad adempiere agli ordini, e perché l’opera di distruzione era stata compiuta in maniera graduale durante un periodo di due settimane, nel corso del quale la nave era ormeggiata alla riva e chiunque avesse voluto avrebbe potuto fuggire a terra e chiedere asilo alle autorità locali. Quanto alle prove, c’erano prove dirette della partecipazione di tutti i membri dell’equipaggio, tranne dodici, all’opera di sabotaggio; per gli altri dodici si poteva ragionevolmente presumere che se pure non era dimostrabile che avessero partecipato al lavoro di danneggiamento, c’era almeno motivo per presumere ragionevolmente che avessero anch’essi partecipato, o quanto meno aiutato e facilitato il sabotaggio. Le condanne furono confermate.

Dopo la confisca, la proprietà della Colorado fu trasferita alla United States Maritime Commission. Il 6 maggio 1941 la Corte Federale degli Stati Uniti, su richiesta del governo portoricano (che temeva eventuali nuovi sabotaggi, che l’avrebbero resa un pericolo per il porto di San Juan), ordinò che la nave fosse ufficialmente trasferita dalla Guardia Costiera. Il giorno seguente la Colorado, ancora impossibilitata a muovere con i propri mezzi, venne disormeggiata e presa a rimorchio dai cutter Unalga ed Acacia della Guardia Costiera statunitense, che la rimorchiarono a Galveston, in Texas (questo viaggio di trasferimento fu una delle più lunghe operazioni affrontate, fino a quel momento, dalla United States Coast Guard). Qui la nave fu portata in cantiere; i danni causati dal sabotaggio furono riparati, ed il nome della petroliera fu cambiato in Typhoon. Registrata sotto bandiera panamense, la nave ricevette il nominativo di chiamata NJRY e venne data in gestione alla Standard Oil Company of New Jersey.
Terminate le riparazioni, la nave riprese a solcare i mari con equipaggio statunitense e bandiera panamense.
Il 7 dicembre 1941, quando il Giappone attaccò gli Stati Uniti, la Typhoon si trovava in navigazione nel Mar dei Caraibi, proveniente da L’Avana (dove aveva scaricato parte del suo carico) e diretta a Guantanamo (dove avrebbe dovuto scaricare il resto). Informata dell’accaduto via radio, iniziò subito ad oscurare le proprie luci.
Il 16 febbraio 1942 la Typhoon fu testimone dell’attacco, da parte del sommergibile tedesco U 156, alla raffineria ed al porto di Aruba: i siluri lanciati dall’U-Boot affondarono una delle petroliere ormeggiate in rada, l’Oranjestad, e ne danneggiarono altre due, l’Arkansas e la Pedernales; poi il sommergibile aprì il fuoco col cannone contro le strutture della raffineria, ma dovette interrompere il tiro quasi subito a causa di un’esplosione accidentale, che mise il pezzo fuori uso. La Typhoon era ormeggiata nel porto, ed il suo equipaggio assisté al colossale incendio che divampava sul mare, alimentato da carburante in fiamme fuoriuscito dall’Oranjestad e dalla Pedernales.
Il giorno seguente la Typhoon salpò da Aruba in convoglio con altre due petroliere, ma, appena ebbe oltrepassato l’apertura nella barriera corallina, vennero avvertite due forti esplosioni: erano bombe di profondità gettate a scopo preventivo dal cacciatorpediniere Winslow, ma l’equipaggio della Typhoon, ancora scosso dallo spettacolo della notte precedente, pensò che si trattasse di un attacco nemico, abbandonò precipitosamente la nave sulle lance e rientrò a remi nel vicino porto.
Successivamente la nave solcò il Mar dei Caraibi facendo parte di numerosi convogli: il CW 3 (Cristobal-Guantanamo, 7-13 luglio 1942), il KW 21 (Key West, 10 settembre 1942-L’Avana), il KG 602 (Key West-Guantanamo, 15-19 settembre 1942), il GAT 7 (Guantanamo-Trinidad, 20-27 settembre 1942), il TAG 9 (Trinidad-Guantanamo, 27settembre-2 ottobre 1942), l’AW 5 (Aruba-Curacao, fine settembre-inizio ottobre 1942), il GK 709 (Guantanamo-Key West, 11-14 ottobre 1942), il GAT 16 (Guantanamo-Trinidad, 22-28 ottobre 1942), il TAG 16 (Trinidad-Guantanamo, 25-31 ottobre 1942), il GAT 21 (Guantanamo-Trinidad, 11-17 novembre 1942), il CK 314 (L’Avana-Key West, 3-4 dicembre 1942), l’HK 126 (Galveston Bar-Key West, 12-17 dicembre 1942), il GAT 33 (Guantanamo-Trinidad, 29 dicembre 1942-3 gennaio 1943), il TAG 34 (Trinidad-Guantanamo, 4-9 gennaio 1943), il GAT 39 (Guantanamo-Trinidad, 22-27 gennaio 1943), il TAG 38 (Trinidad-Guantanamo, 24-29 gennaio 1943), il GAT 55 (Guantanamo-Trinidad, 9-15 aprile 1943), il TAG 56 (Trinidad-Guantanamo, 24-29 aprile 1943), il GAT 61 (Guantanamo-Trinidad, 9-16 maggio 1943), il GK 754 (Guantanamo-Key West, 28-31 agosto 1943), l’HK 163 (Galveston Bar-Key Est, 1-5 dicembre 1943), il KG 674 (Key West-Guantanamo, 5-8 dicembre 1943) ed il GZ 53 (Guantanamo-Cristobal, 15-19 dicembre 1943).

Il 19 ottobre 1943 la Typhoon venne noleggiata «a scafo nudo» dalla Maritime Commission’s War Shipping Administration alla United States Navy, che il 10 febbraio 1944 la mise in servizio come «mobile station tanker» (cioè, nave cisterna da impiegarsi come deposito itinerante di carburante in basi navali remote, dove non erano disponibili dei depositi veri e propri: questo fu l’uso cui furono destinate molte petroliere italiane catturate in acque americane) con il nome di Villalobos (assegnato il 3 novembre 1943) e la sigla IX-145. Il secondo cambiamento di nome rimase però per lungo tempo tale solo sul piano formale, perché la nave continuò ad essere chiamata, nei documenti statunitensi, col suo precedente nome di Typhoon.
Per il servizio militare, la nave fu armata con un cannone singolo a doppio scopo da 76/50 mm, tre mitragliere contraeree binate da 40 mm ed otto mitragliere contraeree singole da 20 mm. Il suo dislocamento era di 12.000 tonnellate e la velocità risultò essere di dieci nodi; la sua capacità di carico di carburante fu di 51.300 barili. L’equipaggio era composto da 133 uomini.
Impiegata nel teatro del Pacifico, sotto la bandiera a stelle e strisce la ex Colorado ebbe un’attività alquanto intensa: come parte della flotta di supporto, infatti, prese parte allo sbarco e presa di Tarawa (2-8 dicembre 1943), venendo poi ormeggiata nella laguna di quell’atollo ed impiegata nel rifornimento delle navi adibite compiti di scorta e copertura per l’operazione «Galvanic» (invasione delle isole Gilbert). Successivamente, imbarcate truppe a bordo ed assegnata al Task Group 51.7 del North Garrison Group (insieme al cacciatorpediniere di scorta Sederstrom ed alla nave mercantile Titan), prese parte all’operazione «Flintock» (conquista delle isole Marshall) appoggiando l’occupazione degli atolli di Kwajalein e Majuro (7-8 febbraio 1944). Nell’aprile 1944 stazionò a Milne Bay, in nuova Guinea, rifornendo diverse unità statunitensi.
Sempre con compiti di trasporto e rifornimento, la Typhoon partecipò ancora alla battaglia di Saipan (27 luglio-9 agosto 1944) ed a quella di Guam (8-9 agosto 1944), inquadrata nel Task Group 51.6 (a Guam, la nave si ormeggiò nel porto di Apra il 3 agosto e sbarcò rifornimenti dal 3 al 6 agosto). In agosto e settembre la Typhoon fu impiegata nel Pacifico occidentale, ed il 24 ottobre salpò da Ulithi per Eniwetok, assegnata al Task Group 31.5. Fino alla fine del 1944 venne utilizzata come deposito galleggiante di combustibile tra Ulithi ed Eniwetok.
Fu in questo periodo che il cambiamento di nome in Villalobos divenne una realtà; la nave venne assegnata al Service Squadron 9 della Service Force dell Flotta del Pacifico.
Il 15 aprile 1945 la Villalobos lasciò Hollandia, in Nuova Guinea, diretta a Mios Woendi (arcipelago di Padaido, nell’Indonesia), dove giunse tre giorni dopo. Qui rimase fino a metà estate, rifornendo navi mercantili e corvette australiane di lubrificanti ed altri derivati del petrolio.
Il 15 agosto 1945 la petroliera lasciò Mios Woendi diretta nelle Filippine; fece scalo a Morotai il 18 agosto e giunse a Zamboanga il 19 agosto, ancorandosi nello stretto di Basilan. La guerra, intanto, era finita: il Giappone si era arreso il 15 agosto.
La Villalobos rimase all’ancora a Mindanao fino a novembre, ancora impiegata come «station tanker» per rifornire di carburante piccole navi mercantili statunitensi. Il 7 novembre la nave ripartì diretta a Palawan, rimorchiando il rimorchiatore dell’Esercito YT-15, ed arrivò a Puerto Princessa il 9 novembre. Da qui proseguì verso Pedro Bay, nell’isola di Leyte (Filippine), dove arrivò sempre rimorchiando lo YT-15. Terminato il suo compito anche qui, la nave raggiunse la Ship Repair Base sull’isola di Manicani (al largo di Samar) e venne quasi subito visitata da una squadra d’ispezione, che raccomandò di tenerla in servizio finché fosse stato necessario.
Dall’1 al 17 dicembre 1945 la nave rimase all’ancora nelle acque di Manicani, poi ripartì per Subic Bay, dove si sarebbe preparata al suo “addio alle armi”.

Solo il 16 febbraio 1946 la Villalobos venne disarmata a Subic Bay e poco dopo (26 febbraio) radiata dai quadri della US Navy. Nei suoi due anni con la U. S. Navy si era guadagnata tre “battle stars”.
L’Executive Order 9935, firmato il 16 marzo 1948 dal presidente statunitense Harry S. Truman, dispose la restituzione al governo italiano di 14 navi mercantili italiane catturate dagli Stati Uniti (o loro consegnate da Paesi sudamericani loro alleati, dopo la cattura) nel 1941; tra di esse anche la Villalobos che, curiosamente, nel testo dell’Executive Order non venne elencata con questo nome bensì ancora come: “Typhoon (ex Colorado)”. Secondo una fonte, nel 1946 la nave (dopo la radiazione dai quadri del naviglio militare) era tornata ad assumere il nome di Typhoon, il che spiegherebbe questa apparente incongruenza.
Il 31 agosto 1948 la petroliera venne trasferita a Manila dalla Maritime Commission alla società di navigazione Petroleum di Genova, la sua vecchia compagnia armatrice, tornando così sotto bandiera italiana ad oltre sette anni dalla cattura.
Il logorante servizio bellico, unitamente all’età avanzata, dovevano però aver ridotto l’ex Colorado in uno stato tale da sconsigliarne un ulteriore utilizzo (per una fonte, però isolata e non confermata, la nave era addirittura affondata nella Subic Bay): la pirocisterna venne infatti avviata alla demolizione già nel 1948 (o 1949), in Estremo Oriente, senza nemmeno aver fatto ritorno in Italia.


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